Guida sui debiti fuori bilancio degli Enti locali Di Marco CATALANO giudice contabile

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14/06/2022

La materia del riconoscimento del debito fuori bilancio per gli enti locali, disciplinata dall’art. 194 del TUEL, presenta numerose problematiche applicative specie per l’ipotesi di cui alla lettera e), ovvero l’acquisizione di beni o servizi senza le formalità previste dalla legge. Innanzitutto, occorre definire e distinguere brevemente l’aspetto civilistico da quello contabile. Sebbene quello contabile non sia altro che la rappresentazione in bilancio di un accadimento che comporti modificazioni nella realtà giuridica, spesso le due regole (civile ed amministrativa) si possono trovare in contrasto tra loro. Occorre, inoltre, sgombrare il campo dal richiamo ad alcune regole processuali (segnatamente l’art. 185 bis c.p.c.) le quali non sono altro che lo strumento per facilitare la composizione alternativa della lite, le ADR, che traggono origine, nel nostro ordinamento, da numerosi interventi europei.

Al fine di favorire la diffusione di strumenti alternativi di risoluzione delle controversie e deflattivi del contenzioso, l’Unione Europea da numerosi anni ha emanato normative in tal senso. Si pensi alle conciliazioni in tema di telecomunicazioni, alla prima Direttiva Ue (52/2008), in materia di ADR, e in modo più specifico alla mediazione di cui al D.Lgs. 28/2010, il cui pivot, però, la condizione di condizione di procedibilità, è stato dichiarato incostituzionale per eccesso di delega. In questo solco ideale si inseriscono i successivi interventi di novella dei codici di rito, volti a rafforzare le ADR, e tra i quali si menziona l’art. 185 bis, secondo cui: Il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l'istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all'esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice. Va però aggiunto che non si possono trarre dall’esegesi dell’articolo in commenti spunti in merito alle modalità di iscrizione in bilancio della eventuale conciliazione; la norma del codice di rito si limita solo a obbligare il giudice, in alcune circostanze, a formulare una proposta di conciliazione, libere le parti di aderire o meno. Quel che conta, e si passa ad affrontare il delicato tema del rapporto tra diritto civile e la sua rappresentazione in bilancio, ai fini conciliativi, è la norma sostanziale di cui all’art. 1965 del c.c. in base alla quale le parti nella loro autonomia, possono farsi reciproche concessioni per porre fine ad una lite in corso o per prevenirne una futura. Transazione che, come rafforzato dall’art. 185 bis, può essere anche giudiziale, su stimolo del giudice.

Tutto ciò premesso, se dal punto di vista del diritto soggettivo occorre la verifica delle reciproche concessioni e soddisfazioni, dal punto di vista contabile occorre verificare in che limiti una pubblica amministrazione possa disporre di un proprio diritto.

Passando all’esame della normativa degli enti locali, è a tutti noto che il TUEL vieta la stipulazione di contratti senza il rispetto delle norme che presidiano la formazione della volontà, ovvero l’osservanza di un formale procedimento amministrativo. La conseguenza è che l’atto o il contratto stipulato da un amministratore o da un dipendente senza potere non vincola l’amministrazione, ma solo coloro che hanno consentito la prestazione in via di fatto. Purtuttavia un recupero al diritto della fattispecie fattuale è previsto dall’art. 194, lett. e) del TUEL che consente una ratifica da parte del titolare (l’ente la cui volontà non è stata espressa secondo le formalità di legge) nei limiti dell’utilità e dell’arricchimento. Questi ultimi due, quindi, segnano il limite di recuperabilità a diritto di una fattispecie in cui il fatto (l’acquisizione senza le formalità) ha anticipato l’atto (la necessaria e preventiva determina). Da questo punto di vista non vi è chi non veda nel riconoscimento dell’ente ex art. 194 lett. e) del TUEL una certa similitudine con la ratifica del falso rappresentato, cui l’art. 1399 consente di ratificare l’operato del falso rappresentante. Entrambi sono espressione del medesimo principio. Il soggetto che non ha autorizzato altri al compimento di atti può sempre ratificare l’attività compiuta. Tornando al TUEL, il limite quantitativo ammissibile per l’ente, circoscritti dalle norme, sono utilità e arricchimento, la cui determinazione spetta alla discrezionalità del consesso comunale previo accertamento dei competenti uffici. Infatti, se e nei limiti in cui l’ente riconosce autonomamente la prestazione come utile, dovrà procedere al riconoscimento del debito fuori bilancio, rinvenendo la provvista per il soddisfacimento del terzo fornitore, e lasciando poi a questi e al dipendente o amministratore problematica del pagamento del residuo dell’importo indicato negli atti che costituiscono prova della prestazione. Ove mai, viceversa, l’ente si stato convenuto in giudizio ben potrà, sempre in maniera discrezionale, ritenere che la prestazione ricevuta abbia avuto una qualche utilità per l’ente, e quindi addivenire alla transazione. A tal fine l’ente si dovrà attenere al rispetto dei principi già enucleati dalla Corte dei conti e che possono qui riassumersi:

"-i limiti alla stipulazione della transazione da parte di enti pubblici sono quelli propri di ogni soggetto dell'ordinamento giuridico, e cioè la legittimazione soggettiva e la disponibilità dell'oggetto, e quelli specifici di diritto pubblico, e cioè la natura del rapporto tra privati e pubblica amministrazione.  Sotto quest'ultimo profilo va ricordato che, nell'esercizio dei propri poteri pubblicistici, l'attività degli enti territoriali è finalizzata alla cura concreta di interessi pubblici e quindi alla migliore cura dell'interesse intestato all'ente. Pertanto, i negozi giuridici conclusi con i privati non possono condizionare l'esercizio del potere dell'Amministrazione pubblica sia rispetto alla miglior cura dell'interesse concreto della comunità amministrata, sia rispetto alla tutela delle posizioni soggettive di terzi, secondo il principio di imparzialità dell'azione amministrativa;

-la scelta se proseguire un giudizio o addivenire ad una transazione e la concreta delimitazione dell'oggetto della stessa spetta all'Amministrazione nell'ambito dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa e come tutte le scelte discrezionali non è soggetta a sindacato giurisdizionale, se non nei limiti della rispondenza delle stesse a criteri di razionalità, congruità e prudente apprezzamento, ai quali deve ispirarsi l'azione amministrativa. Uno degli elementi che l'ente deve considerare è sicuramente la convenienza economica della transazione in relazione all'incertezza del giudizio, intesa quest'ultima in senso relativo, da valutarsi in relazione alla natura delle pretese, alla chiarezza della situazione normativa e ad eventuali orientamenti giurisprudenziali;

-ai fini dell'ammissibilità della transazione è necessaria l'esistenza di una controversia giuridica (e non di un semplice conflitto economico), che sussiste o può sorgere quando si contrappongono pretese confliggenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale sia giuridicamente fondata. Di conseguenza, il contrasto tra l'affermazione di due posizioni giuridiche è la base della transazione in quanto serve per individuare le reciproche concessioni, elemento collegato alla contrapposizione delle pretese che ciascuna parte ha in relazione all'oggetto della controversia. Si tratta di un elemento che caratterizza la transazione rispetto ad altri modi di definizione della lite;

-la transazione è valida solo se ha ad oggetto diritti disponibili (art 1966, co. 2 cod. civ.) e cioè, secondo la prevalente dottrina e giurisprudenza, quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. È nulla, infatti, la transazione nel caso in cui i diritti che formano oggetto della lite siano sottratti alla disponibilità delle parti per loro natura o per espressa disposizione di legge. In particolare, il potere sanzionatorio dell'amministrazione e le misure afflittive che ne sono l'espressione possono farsi rientrare nel novero delle potestà e dei diritti indisponibili, in merito ai quali è escluso che possano concludersi accordi transattivi con la parte privata destinataria degli interventi sanzionatori (cfr. Sez. Lombardia n. 1116/2009 cit.);

Pertanto requisito essenziale dell'accordo transattivo disciplinato dal codice civile (artt. 1965 e ss.) è, in forza dell'art. 1321 dello stesso codice, la patrimonialità del rapporto giuridico, cui si deve aggiungere:

che l’ente abbia cura di formare la volontà transattiva tramite il rispetto delle norme che presidiano la sua volontà, altrimenti si riproporrebbe in sede giudiziale il vizio che si è manifestato in sede di conclusione dell’accordo;

che l’ente, poi, provveda al pagamento;

che l’ente, infine, provveda alla modifica delle proprie scritture di bilancio.

Quel che rileva però, è che se la controversia è insorta a causa di una non corretta espressione della volontà dell’ente (senza la determina, per intenderci), vi sarà un’obbligazione extracontrattuale che potrà essere riconosciuta (e transatta) solo laddove e nei limiti di utilità l’ente (o in sede di riconoscimento del debito fuori bilancio o in sede giudiziale) ritenga fondata la pretesa altrui.

In definitiva l’ente potrà sicuramente transigere la lite sia innanzi al giudice che in via stragiudiziale, sebbene in questo caso non si potrà avere tecnicamente riconoscimento del debito fuori bilancio poiché il Consiglio Comunale non è stato investito della variazione di bilancio. Però l’ente dovrà aver cura di autorizzare la transazione con il rispetto delle norme che presidiano la legittima formazione della volontà e provvedere alla modifica delle scritture di bilancio. Tutto ciò non osta, chiaramente, ad un passaggio in consiglio per rendere edotte le minoranze del fatto compiuto.

Ulteriore problematica è quella del se la transazione elimini la responsabilità del funzionario. La risposta non può essere assoluta, poiché occorre verificarne il contenuto. Se la stessa è novativa, ovvero le parti sostituiscono alla obbligazione originariamente sorta in via di fatto l’accordo transattivo, allora sarà questa e solo questa la prestazione cui avrà diritto il terzo, sempre che l’ente onori la transazione, altrimenti potrà risorgere il precedente obbligo (art. 1976 c.c.); se, invece, la transazione non è novativa, poiché il terzo intende ricevere integrale soddisfazione del suo credito, allora il funzionario o dipendente non sarà liberato dall’obbligo di versare al terzo la differenza tra quanto ordinato e quanto riconosciuto con la transazione. Infatti in questo caso se le parti decidano di transigere con il pagamento totale di quanto ordinato dal funzionario, in disparte la insussistenza di una causa, mancando reciproche concessioni, vi è una violazione dell’art. 194 lett e), che limita il riconoscibile e pagabile da parte dell’ente al solo utile. L’ente, transigendo per l’intero, decide di versare al terzo quanto pattuito dal funzionario senza potere. In questa ipotesi, a meno che l’utilità e l’arricchimento coincidano al 100% con l’accordo del funzionario con il terzo, non solo l’ente si dovrà rivalere sul funzionario (estraneo al giudizio), ma, fin tanto che non lo fa, avrà causato un danno erariale pari alla differenza tra l’utile (riconoscibile in via autonoma ex art. 194 lett. e) e il pattuito.

Ulteriore problema è la solidarietà passiva tra funzionario e amministrazione.

Premesso che la definizione di solidarietà è data dall’art. 1292 c.c. (e secondo la più accreditata e classica dottrina consiste in un fascio di rapporti), si osserva come nella responsabilità contrattuale la solidarietà passiva non è ex lege, come in quella extracontrattuale (art. 2055 c.c.). Pertanto, ove mai l’ente e il terzo transigano la lite stabilendo una solidarietà passiva tra l’ente e il funzionario, a meno che (ipotesi altamente improbabile) il funzionario non lo sottoscriva, egli non sarà obbligato in solido con l’ente, a meno che, forse, l’accordo non sia più favorevole rispetto a quanto dovrebbe pagare se fosse considerato unico obbligato.

L’art. 73 del d. lgs. n. 118/2011, come aggiunto dal d.lgs. n. 126/2014, disciplina, in analogia alla normativa dettata per gli enti locali dal d. lgs. n. 267/2000, la materia del riconoscimento dei debiti fuori bilancio, da attuarsi con apposita legge regionale, secondo le seguenti fattispecie tassativamente elencate:

a) sentenze esecutive; in questo caso, ex comma 4, al riconoscimento della legittimità dei debiti fuori bilancio di cui al comma 1, lettera a), il Consiglio regionale o la Giunta regionale provvedono entro trenta giorni dalla ricezione della relativa proposta. Decorso inutilmente tale termine, la legittimità di detto debito si intende riconosciuta (Comma così modificato dall'art. 38-ter, comma 1, D.L. 30 aprile 2019, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 giugno 2019, n. 58)

b) copertura dei disavanzi di enti, società ed organismi controllati, o, comunque, dipendenti dalla Regione, purché il disavanzo derivi da fatti di gestione;

c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, delle società di cui alla lettera b);

d) procedure espropriative o di occupazione d’urgenza per opere di pubblica utilità;

e) acquisizione di beni e servizi in assenza del preventivo impegno di spesa.

La norma prevede, inoltre, la possibilità per la Regione di provvedere al pagamento del debito anche mediante un piano di rateizzazione della durata di tre esercizi finanziari compreso quello in corso e convenuto con i creditori.

Qualora il bilancio della Regione non rechi le disponibilità finanziarie sufficienti per effettuare le spese conseguenti al riconoscimento dei debiti fuori bilancio, la Regione è autorizzata a deliberare aumenti, sino al limite massimo consentito dalla vigente legislazione, dei tributi, delle addizionali, delle aliquote ovvero delle maggiorazioni di aliquote ad essa attribuite, nonché ad elevare ulteriormente la misura dell’imposta regionale di cui all’art. 17, comma 1, del d. lgs. 21/12/1990, n. 398, fino a un massimo di cinque centesimi per litro, ulteriori rispetto alla misura massima consentita. In questo caso quel che detta perplessità è l’automatico riconoscimento per silentium della Regione. In sostanza si ha l’ipotesi normale di cui alla lettera a), per cui occorre una legge regionale per modificare il bilancio regionale, a sua volta approvato con legge.

Ove mai, viceversa, il Consiglio regionale sia inerte rispetto alla proposta dei competenti uffici, la proposta si intende riconosciuta. In sostanza il legislatore ha consentito ad un fatto (l’inerzia protratta per trenta giorni) il valore di una legge di riconoscimento del debito, con tutto quel che consegue in tema di modifica del bilancio. Se, infatti, il debito fuori bilancio di una Regione deve essere riconosciuto con legge, con la quale il Consiglio dovrà trovare la copertura finanziaria, appare anomalo che un pagamento possa essere effettuato senza la adozione di un atto formale. In sostanza, si trova la copertura ad una prestazione di fatto con un riconoscimento di fatto

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